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Chiesa di S. Antonio Abate

DSCN0719Gli ANTONIANI costituivano un ordine monastico nato per realizzare con la loro vita  ascetica  l’ideale  spirituale praticato  da Santo  Antonio Abate, un giovane di nobile famiglia egiziana vissuto nel IV sec. dopo Cristo, il quale scelse la vita eremitica nel deserto della Tebaide per ascoltare nel silenzio la parola di Dio. Vestivano una tunica ed un mantello nero su cui spiccava il “Tau”, simbolo che esprimeva la potenza taumaturgica del Signore. Con il tempo i monaci antoniani si allontanarono dalla loro iniziale ispirazione ascetica ed acquistarono una diversa identità, legata alla loro capacità di curare, con medicine da loro stessi preparate, i pellegrini itineranti , gli ammalati ed i poveri. La loro funzione prevalente divenne quella di assistenza sociale verso le popolazioni delle città e delle campagne afflitte da malattie endemiche quali l’ergotismo, la lebbra, la lue, diventando una comunità di veri e propri frati laici infermieri forniti di notevoli conoscenze mediche.  La fama degli antoniani si sviluppò rapidamente in tutta Europa grazie ad un misterioso unguento che essi erano riusciti a mettere a punto per la cura di una malattia dolorosa largamente diffusa nella popolazione in quei tempi: il male degli ardenti, il fuoco sacro, nient’altro che l’herpes zoster che da loro prese il nome di “fuoco di Sant’Antonio”. La scoperta di questo unguento preparato a base di sugna di maiale fece degli antoniani un ordine potente e ricco, corteggiato dai sovani in tutta l’Europa. Finirono per cambiare nome, da Antoniani si chiamarono monaci “ospedalieri”. Nel XIV secolo gli Angioini di Napoli, sensibili alle condizioni di vita dei loro amministrati, scelsero proprio i monaci ospedalieri per costruire nell’ambito del loro regno una diffusa rete di strutture assistenziali rivolte ai bisogni della popolazione. Promossero a loro spese la costruzione di una capillare rete di complessi religiosi e assistenziali, formati generalmente da tre moduli: un monastero, una chiesa ed un annesso ospedale.

E’ a questa fase storica che risale la costruzione della chiesa di Sant’Antonio Abate di Teano

, piccolo edificio religioso arrivato quasi

integro nella sua forma fino noi, mentre sono del tutto scomparsi sia il monastero che l’ospedale. E’ importante notare che il complesso costruito per volontà della regina Giovanni fu costruito proprio nel punto in cui la via Francigena attraversava il territorio della città di Teano.

La Chiesa si presenta costituita da un’aula a navata unica di forma rettangolare e da

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un’abside semicircolare, quest’ultima affrescata da uno o più pittori di sicura ascendenza giottesca con episodi della vita del Santo. Le finestre a sesto acuto ancora visibili sui lati lunghi dell’aula testimoniano con certezza l’appartenenza dell’edificio  alla fase tardo gotica dell’architettura religiosa. La facciata, invece, ha perso tali caratteristiche a seguito di un intervento di restauro operato dalla potente famiglia dei Marzano.

Mentre nessuna traccia è arrivata a noi degli affreschi che decoravano la navata rettangolare, quel che resta della decorazione dell’abside ci riporta alla lezione spaziale dei grandi maestri del Trecento, come Giotto, Cavallini e Simone Martini, lezione fatta propria da straordinari pittori che operavano nella Napoli angioina. Ed è ad uno di questi  pittori , certamente dotato di grande cultura storica oltre che pittorica ,che va attribuita la straordinaria opera decorativa dell’abside. Il racconto della vita del Santo si sviluppa secondo uno schema narrativo a riquadri che procede dall’alto verso il  basso e da sinistra a destra, ed ogni riquadro è delimitato da un elegante decoro geometrico che richiama analoghi decori presenti in chiese umbre e toscane. Nella parte bassa di ogni riquadro è presente una scritta che descrive, come in un moderno fumetto, il tema narrativo presente nel riquadro. Una curiosità da sottolineare è la scritta, purtroppo incomprensibile, che è stata tracciata dalla mano del pittore lungo la base della chiesa dipinta nel riquadro centrale della fila più bassa.

Irrimediabilmente perduti sono i quattro riquadri che formavano la prima fila, riquadri che probabilmente raccontavano la giovinezza ed i primi anni di vita eremitica di Antonio.

Nella seconda fila è scomparso il  primo riquadro di cui non conosciamo il contenuto. Nel secondo riquadro viene raccontato un episodio della vita del Santo desunto dalla “Vita Antonii” di Atanasio e poi ripreso nella “Legenda Aurea “ di Jacopo da Varagine. Antonio sta in piede affranto davanti al corpo senza vita del suo precursore e maestro, San Paolo di Tebe, mentre ordine a due leoni mansueti di scavare la fossa per la sepoltura dell’eremita. Sullo sfondo si intravede a malapena quella che doveva essere un’oasi con palmizi, dipinta con colori ocra e azzurri, colori prediletti da Giotto.

Nel terzo e quarto riquadro il pittore affronta il tema delle tentazioni di Antonio ad opera del diavolo. Nella prima scena il diavolo assume le sembianze di una bella donna che cerca di sedurre il santo. Antonio fa apparire delle lingue di fuoco sul terreno che tengono lontano la tentatrice. E’ nel secondo riquadro che il pittore dimostra di conoscere profondamente le fonti più rare sulla vita di Antonio raccontando, con assoluta originalità, un episodio che non è presente in nessun altra pittura dell’epoca: Antonio è disteso a terra con le mani tese in avanti, come a proteggersi dalle terribili tentazioni del diavolo che si manifesta questa volta nel corpo di un bel giovane etiope, mentre un altro diavolo alato scende dal cielo a dare manforte al giovane.

Nell’ultima fila si riescono a leggere soltanto tre riquadri. Nel primo Antonio è inginocchiato davanti ad un tempio di stile romanico a lui consacrato, mentre riceve da un angelo sospeso nell’aria un cartiglio con una scritta illegibile. Nel terzo riquadro di destra, quello  finale, sono dipinti con un forte timbro realistico cinque fraticelli che piangono  intorno al letto di morte del Santo. La scena è collocata all’interno di una piccola cella. La rappresentazione di sbieco della cella e la profondità prospettica dello spazio interno ci fanno capire in tutta evidenza quanto sia forte e ormai digerita  la lezione spaziale che Giotto ha trasmesso ai suoi allievi in tutta Italia.

Tutt’altro discorso merita la figura imponente del Santo rappresentata nel penultimo riquadro della prima fila. Innanzitutto è diverso, molto più raffinato, il decoro che racchiude la pittura, fatto che lascia intuire un successivo intervento di un pittore  tecnicamente più formato. Ma la stessa figura del Santo, che ricorda la ieraticità statuaria delle figure di santi dipinte dai maestri toscani del cinquecento, quale può essere Piero della Francesca, ci riporta ad un altro clima intellettuale e ad un’altra fase della storia dell’arte. Il pittore di questo riquadro, che certamente è intervenuto sull’affresco in un secondo momento, “rubando” dello spazio al riquadro finale col compianto per la morte del Santo, ha voluto darci una lettura della figura di Antonio fuori dagli schemi iconografici tradizionali, secondo una lettura sviluppatasi nella cultura popolare. Antonio, infatti, non è rappresentato con il classico corredo del campanello, del fuoco in una mano e del maialino ai suoi piedi. In questo riquadro Antonio mostra agli osservatori un libro, quasi fosse un religioso colto e saggio  posto a difesa   della dottrina della Chiesa. Forse quest’ultimo pittore ha voluto mettere in evidenza il lavoro svolto da Antonio nella difesa dell’ortodossia cattolica, nei momenti difficili perla storia della Chiesa, quando Antonio fu costretto a lasciare la pace del deserto per combattere contro l’eresia ariana e fermare la mano dell’imperatore Massimino che perseguitava i cristiani.